March 26, 2017 | 0 |
Tutti i marketeer sanno benissimo quanto sia importante coccolare l’utente attraverso una landing page che sia davvero in grado di coccolare l’utente, persuaderlo e invogliarlo a cliccare sulla tua “call to action”.
Prima di tutto la landing page va progettata con cura, ed è importante effettuare un sano benchmark dell’eventuale concorrenza per comprendere soprattutto quale tipologia di contenuto possa risultare più adeguata.
• Come posiziono il contenuto?
• Mi serve un “lead magnet” per fare upselling o punto alla vendita diretta? Oppure una combinazione di entrambi?
• Può essere utile aggiungere delle recensioni del mio prodotto? Dei testimonial?
• Che genere di foto mi servono? Oppure meglio un video?
• ….
Sono tante le domande da porsi per progettare la landing page ma la cosa veramente importante è dotarsi di uno strumento versatile per effettuare gli A/B test.
Una volta scelto il tipo di contenuto, è infatti essenziale procedere con gli split test e studiare meticolosamente come organizzare tale contenuto.
• Meglio posizionare il contenuto fotografico in alto, al centro o a sinistra?
• Che cosa scrivo nella “call to action”?
• Di che colore e dimensione deve essere la “call to action”?
• Che tipo di font è meglio utilizzare?
• Come posso dare il senso dell’urgenza?
Gestire un’attività di split testing è un lavoro faticoso che richiede grande attenzione ed è fortemente dipendente dalle metriche che si vogliono estrapolare.
E’ evidente che il “conversion rate” ed il suo relativo costo tende ad essere la metrica principale ma esistono molti altri elementi da prendere in considerazione che possono permettere di ottimizzare ulteriormente l’acquisto di traffico.
Fino a qui niente di nuovo su cui non esista una tonnellata di letteratura. Alla fine ci sarà una landing page vincente, anche se perfetta è una parola grossa!
Quello che spesso non viene preso in considerazione è il targeting e le capacità di auto-ottimizzazione che Facebook è in grado di offrire.
Molto spesso si cerca di profilare il target credendo di conoscerlo e quindi si riduce l’audience perché si ipotizza che il nostro utente preferito sia un uomo, dai 40 ai 50 anni che fa un tal lavoro o ha un tal interesse.
Così facendo però ci si priva della possibilità di valutare quale realmente sia il target. Questo vale anche se si creano tanti gruppi, magari geolocalizzati per vedere se a Roma l’utente è più reattivo che a Parma.
L’aspetto negativo è che si può essere ingannati dalle metriche. Magari il cpm è ottimo, il ctr pure, ma semplicemente si sta targettizzando utenti troppo abituati a comprare quel prodotto e, proprio perché troppo educati, tendono a produrre un conversion rate pessimo.
La parola chiave si chiama “pixel di monitoraggio” di Facebook.
Si sa che un obiettivo si analizza meglio se si scompone in tanti piccoli obiettivi, ed è possibile usare un pixel di monitoraggio su ciascuno di questi.
Solo per fare un esempio:
Il prodotto deve essere prima di tutto CERCATO (se esiste un motore di ricerca), poi viene VISTO, successivamente AGGIUNTO AL CARRELLO, dopodichè si porta nel CHECK-OUT. Poi ancora si iniziano a INSERIRE I DATI DI PAGAMENTO e se tutto va bene ecco che arriva il pixel finale….L’ACQUISTO.
In questo caso si tratta di ben 6 obiettivi che, se comunicati a Facebook nel corso di una campagna, permettono al colosso di Menlo Park di comprendere meglio quale utenza fa al caso nostro.
In altre parole, scegliendo un audience più vasta (broad target) ma facendo buon uso dei pixel, permettiamo a Facebook di fare il lavoro tosto per noi.
Non va sottovalutata quindi le sofisticate potenzialità di Facebook ed è consigliabile quindi partire con un target che può essere ben sopra il milione di utenti, perché sarà Facebook stessa a selezionarlo e noi potremmo vedere come ciascun obiettivo viene ottimizzato.
Tutto questo senza ovviamente parlare della strategia relativa al testing di creatività (video, foto, titoli, slogan ecc.) che concorrono a determinare il successo della campagna.